La Leggenda del Grande Inquisitore
Dostoevskij, La Leggenda del Grande Inquisitore
F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov
La mia azione
si svolge in Spagna, a Siviglia, al tempo piú pauroso dell’inquisizione quando
ogni giorno nel paese ardevano i roghi per la gloria di Dio e
con
grandiosi autodafé
si
bruciavano gli eretici.
Oh, certo,
non è cosí che Egli scenderà, secondo la Sua promessa, alla fine dei tempi, in
tutta la gloria celeste, improvviso “come folgore che splende dall’Oriente
all’Occidente”. No, Egli volle almeno per un istante visitare i Suoi figli
proprio là dove avevano cominciato a crepitar i roghi degli eretici. Nell’immensa
Sua misericordia, Egli passa ancora una volta fra gli uomini in quel medesimo
aspetto umano col quale era passato per tre anni in mezzo agli uomini quindici
secoli addietro. Egli scende verso le “vie roventi” della città meridionale, in
cui appunto la vigilia soltanto, in un “grandioso autodafé”, alla presenza del
re, della corte, dei cavalieri, dei cardinali e delle piú leggiadre dame di
corte, davanti a tutto il popolo di Siviglia, il cardinale grande inquisitore
aveva fatto bruciare in una volta, ad majorem Dei gloriam, quasi un
centinaio di eretici. Egli è comparso in silenzio, inavvertitamente, ma ecco –
cosa strana – tutti Lo riconoscono. Spiegare perché Lo riconoscano, potrebbe
esser questo uno dei piú bei passi del poema. Il popolo è attratto verso di Lui
da una forza irresistibile, Lo circonda, Gli cresce intorno, Lo segue. Egli
passa in mezzo a loro silenzioso, con un dolce sorriso d’infinita compassione.
Il sole dell’amore arde nel Suo cuore, i raggi della Luce, del Sapere e della
Forza si sprigionano dai Suoi occhi e, inondando gli uomini, ne fanno tremare i
cuori in una rispondenza d’amore. Egli tende loro le braccia, li benedice e dal
contatto di Lui, e perfino dalle Sue vesti, emana una forza salutare. Ecco che
un vecchio, cieco dall’infanzia, grida dalla folla: “Signore, risanami, e io Ti
vedrò”, ed ecco che cade dai suoi occhi come una scaglia, e il cieco Lo vede.
Il popolo piange e bacia la terra dove Egli passa. I bambini gettano fiori
dinanzi a Lui, cantano e Lo acclamano: “Osanna!”. “E’ Lui, è Lui”, ripetono
tutti, “dev’essere Lui, non può esser che Lui”. Egli si ferma sul sacrato della
cattedrale di Siviglia nel preciso momento in cui portano nel tempio, fra i
pianti, una candida bara infantile aperta: c’è dentro una bambina di sette anni,
unica figlia di un insigne cittadino. La bimba morta è tutta coperta di fiori.
“Egli risusciterà la tua bambina”, gridano dalla folla alla madre piangente. Il
prete della cattedrale uscito incontro alla bara guarda perplesso e aggrotta le
sopracciglia. Ma ecco risonare a un tratto il grido della madre della bambina
morta. Essa si getta ai Suoi piedi: “Se sei Tu, risuscita la mia creatura!”,
esclama, tendendo le braccia verso di Lui. Il corteo si ferma, la bara è
deposta sul sacrato ai Suoi piedi. Egli la guarda con pietà e le Sue labbra
pronunziano piano ancora una volta: “Talitha kum”, “e la fanciulla si
levò”. La bambina si solleva nella bara, si siede e guarda intorno sorridendo
con gli occhietti sgranati, pieni di stupore. Ha nelle mani il mazzo di rose
bianche col quale era distesa nella bara. Il popolo si agita, grida,
singhiozza; ed ecco in questo stesso momento passare accanto alla cattedrale,
sulla piazza, il cardinale grande inquisitore in persona. È un vecchio quasi
novantenne, alto e diritto, dal viso scarno, dagli occhi infossati, ma nei
quali, come una scintilla di fuoco, splende ancora una luce. Oh, egli non ha
piú la sontuosa veste cardinalizia di cui faceva pompa ieri davanti al popolo,
mentre si bruciavano i nemici della fede di Roma: no, egli non indossa in
questo momento che il suo vecchio e rozzo saio monastico. Lo seguono a una
certa distanza i suoi tetri aiutanti, i servi e la “sacra” guardia. Si ferma
dinanzi alla folla e osserva da lontano. Ha visto tutto, ha visto deporre la
bara ai piedi di Lui, ha visto la bambina risuscitare, e il suo viso si è
abbuiato. Aggrotta le sue folte sopracciglia bianche e il suo sguardo brilla di
una luce sinistra. Egli allunga un dito e ordina alle sue guardie di
afferrarlo. E tanta è la sua forza e a tal punto il popolo è docile, sottomesso
e pavidamente ubbidiente, che la folla subito si apre davanti alle guardie e
queste, in mezzo al silenzio di tomba che si è fatto di colpo, mettono le mani
su Lui e Lo conducono via. Per un istante tutta la folla, come un solo uomo, si
curva fino a terra davanti al vecchio inquisitore; questi benedice il popolo in
silenzio e passa oltre. Le guardie conducono il Prigioniero sotto le volte di
un angusto e cupo carcere nel vecchio edificio del Santo Uffizio e ve Lo rinchiudono.
Passa il giorno, sopravviene la scura, calda, “afosa” notte di Siviglia. L’aria
“odora di lauri e di limoni”. In mezzo alla tenebra profonda si apre a un
tratto la ferrea porta del carcere, e il grande inquisitore in persona con una
fiaccola in mano lentamente si avvicina alla prigione. È solo, la porta si
richiude subito alle sue spalle. Egli si ferma sulla soglia e considera a
lungo, per uno o due minuti, il volto di Lui. Infine si accosta in silenzio,
posa la fiaccola sulla tavola e Gli dice:
– “Sei Tu,
sei Tu?” – Ma, non ricevendo risposta, aggiunge rapidamente: – “Non rispondere,
taci. E che potresti dire? So troppo bene quel che puoi dire. Del resto, non
hai il diritto di aggiunger nulla a quello che Tu già dicesti una volta. Perché
sei venuto a disturbarci? Sei infatti venuto a disturbarci, lo sai anche Tu. Ma
sai che cosa succederà domani? Io non so chi Tu sia, e non voglio sapere se Tu
sia Lui o soltanto una Sua apparenza, ma domani stesso io Ti condannerò e Ti
farò ardere sul rogo, come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo
che oggi baciava i Tuoi piedi si slancerà domani, a un mio cenno, ad attizzare
il Tuo rogo, lo sai? Sí, forse Tu lo sai”, – aggiunse, profondamente pensoso,
senza staccare per un attimo lo sguardo dal suo Prigioniero.
– Io non
comprendo bene Ivàn, che voglia dir questo – sorrise Aljòsa, che aveva sempre
ascoltato in silenzio; – è semplicemente una fantasia delirante, o un errore
del vecchio, un assurdo qui pro quo?
– Ammetti
pure quest’ultima ipotesi, – scoppiò a ridere Ivàn, – se il realismo
contemporaneo ti ha già tanto guastato che tu non possa tollerare nulla di
fantastico; vuoi che sia un qui pro quo? E sia pure! È vero, – e tornò a
ridere, – il vecchio ha novant’anni e da un pezzo la sua idea poteva averlo
fatto impazzire. Egli poteva essere stato colpito dall’aspetto esteriore del
Prigioniero. Poteva infine essere un semplice delirio, la visione di un vecchio
novantenne sulla soglia della morte, sovreccitato per giunta dall’autodafé dei
cento eretici bruciati la vigilia. Ma qui pro quo o fantasia troppo
sfrenata, non è lo stesso per noi? L’importante qui è solo che il vecchio deve
infine manifestare il proprio pensiero e lo manifesta e dice ad alta voce ciò
che per novant’anni ha taciuto.
– E il
Prigioniero rimane zitto? Lo guarda e non dice nemmeno una parola?
– Ma è cosí
che deve essere, in ogni caso, – rise nuovamente Ivàn. – Il vecchio stesso Gli
osserva che Egli non ha il diritto di aggiunger nulla a quanto già fu detto.
C’è appunto qui, se vuoi, il tratto piú fondamentale del cattolicesimo romano,
come a dire. “Tutto è stato da Te trasmesso al papa, tutto quindi è ora nelle
mani del papa, e Tu non venirci a disturbare, quanto meno prima del tempo”. In
questo senso non solo parlano, ma anche scrivono i cattolici, i gesuiti almeno.
L’ho letto io stesso nelle opere dei loro teologi. “Hai Tu il diritto di
rivelarci anche un solo segreto del mondo da cui sei venuto?”. – Gli domanda il
mio vecchio e risponde egli stesso per Lui: – “No, Tu non l’hai, se non vuoi
aggiungere qualcosa a quello che già fu detto e togliere agli uomini quella
libertà che tanto difendesti quando eri sulla terra. Tutto ciò che di nuovo Tu
ci rivelassi attenterebbe alla libertà della fede umana, giacché apparirebbe
come un miracolo, mentre la libertà della fede già allora, millecinquecent’anni
or sono, Ti era piú cara di tutto. Non dicevi Tu allora spesso: “Voglio
rendervi liberi?”. Ebbene, adesso Tu li ha veduti, questi uomini “liberi”, –
aggiunge il vecchio con un pensoso sorriso. – Sí, questa faccenda ci è costata
cara, – continua, guardandolo severo, – ma noi l’abbiamo finalmente condotta a
termine, in nome Tuo. Per quindici secoli ci siamo tormentati con questa
libertà, ma adesso l’opera è compiuta e saldamente compiuta. Non credi che sia
saldamente compiuta? Tu mi guardi con dolcezza e non mi degni neppure della Tua
indignazione? Ma sappi che adesso, proprio oggi, questi uomini sono piú che mai
convinti di essere perfettamente liberi, e tuttavia ci hanno essi stessi recato
la propria libertà, e l’hanno deposta umilmente ai nostri piedi. Questo siamo
stati noi ad ottenerlo, ma è questo che Tu desideravi, è una simile libertà?”.
– Io torno a
non comprendere, – interruppe Aljòsa, – egli fa dell’ironia, scherza?
– Niente
affatto. Egli fa un merito a sé ed ai suoi precisamente di avere infine
soppresso la libertà e di averlo fatto per rendere felici gli uomini. “Ora
infatti per la prima volta (egli parla, naturalmente, dell’inquisizione) è
diventato possibile pensare alla felicità umana. L’uomo fu creato ribelle;
possono forse dei ribelli essere felici? Tu eri stato avvertito, – Gli dice, –
avvertimenti e consigli non Ti erano mancati, ma Tu non ascoltasti gli
avvertimenti. Tu ricusasti l’unica via per la quale si potevano render felici
gli uomini, ma per fortuna, andandotene, rimettesti la cosa nelle nostre mani.
Tu ci hai promesso, Tu ci hai con la Tua parola confermato, Tu ci hai dato il
diritto di legare e di slegare, e certo non puoi ora nemmeno pensare a
ritoglierci questo diritto. Perché dunque sei venuto a disturbarci?”.
– Ma che cosa
significa: “Non Ti sono mancati avvertimenti e consigli?” – domandò Aljòsa.
– Ma qui
appunto sta l’essenza di ciò che il vecchio deve esprimere. “Lo spirito
intelligente e terribile, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, –
continua il vecchio, – il grande spirito. Ti parlò nel deserto, e nei libri ci
è riferito come egli Ti avesse “tentato”. Non è cosí? Ma si poteva mai dire
qualcosa di piú vero di quanto egli Ti rivelò nelle tre domande che Tu respingesti
e che nei libri sono dette “tentazioni”? Tuttavia, se mai ci fu sulla terra un
vero e clamoroso miracolo, fu in quel giorno, nel giorno di quelle tre
tentazioni. Precisamente nella formulazione di quelle tre domande era racchiuso
il miracolo. Se si potesse, soltanto a mo’ di esempio e di ipotesi, immaginare
che quelle tre domande dello spirito terribile fossero scomparse dai libri
senza lasciare traccia e che occorresse ricostruirle, pensarle e formularle di
nuovo, per rimetterle nei libri, e se per questo si riunissero tutti i sapienti
della terra – governanti, prelati, dotti, filosofi, poeti, – e si assegnasse
loro questo compito: immaginate, formulate tre domande tali da corrispondere
all’importanza dell’evento non solo, ma da esprimere per giunta in tre parole,
in tre proposizioni umane, tutta la futura storia del mondo e dell’umanità, –
ebbene, credi Tu che tutta la sapienza della terra, insieme raccolta, potrebbe
concepire qualcosa di simile per forza e profondità a quelle tre domande che Ti
furono allora rivolte nel deserto dallo spirito intelligente e possente? Già
solo da quelle domande e dal prodigio della loro formulazione si può capire che
si ha da fare non con lo spirito umano transitorio, ma con quello eterno ed
assoluto. In quelle tre domande infatti è come compendiata e predetta tutta la
storia ulteriore dell’umanità, sono dati i tre archetipi in cui si
concreteranno tutte le insolubili, contraddizioni storiche dell’umana natura su
tutta la terra. Questo non poteva ancora, a quel tempo, essere cosí chiaro,
poiché l’avvenire era ignoto, ma adesso, passati quindici secoli, noi vediamo
che in quelle tre domande tutto era stato a tal segno divinato e predetto e che
tutto si è a tal segno avverato, che non è piú possibile aggiungervi o toglierne
alcunché.
“Decidi Tu
stesso chi avesse ragione, se Tu o colui che allora T’interrogava. Ricordati la
prima domanda: se non la lettera il senso era questo: “Tu vuoi andare e vai al
mondo con le mani vuote, con non so quale promessa di una libertà che gli
uomini, nella semplicità e nella innata intemperanza loro, non possono neppur
concepire, che essi temono e fuggono, giacché nulla mai è stato per l’uomo e
per la società umana piú intollerabile della libertà! Vedi Tu invece queste
pietre in questo nudo e infocato deserto? Mutale in pani e l’umanità sorgerà
dietro a Te come un riconoscente e docile gregge, con l’eterna paura di vederti
ritirare la Tua mano, e di rimanere senza i Tuoi pani”. Ma Tu non volesti
privar l’uomo della libertà e respingesti l’invito, perché, cosí ragionasti,
che libertà può mai esserci, se la ubbidienza è comprata coi pani? Tu
obiettasti che l’uomo non vive di solo pane, ma sai Tu che nel nome di questo
stesso pane terreno, insorgerà contro di Te lo spirito della terra e lotterà
con Te e Ti vincerà, e tutti lo seguiranno, esclamando: “Chi è comparabile, a
questa bestia? Essa ci ha dato il fuoco del cielo!”. Sai Tu che passeranno i
secoli e l’umanità proclamerà per bocca della sua sapienza e della sua scienza
che non esiste il delitto, e quindi nemmeno il peccato, ma che ci sono soltanto
degli affamati? “Nutrili e poi chiedi loro la virtú!”, ecco quello che
scriveranno sulla bandiera che si leverà contro di Te e che abbatterà il Tuo
tempio. Al posto del Tuo tempio sorgerà un nuovo edificio, sorgerà una nuova
spaventosa torre di Babele, e, quand’anche essa restasse, come la prima,
incompiuta, Tu avresti però potuto evitare questa nuova torre e abbreviare di
mille anni le sofferenze degli uomini, giacché essi verranno a noi, dopo essersi
arrovellati per mille anni intorno alla loro torre! Essi torneranno allora a
cercarci sotto terra, nelle catacombe, dove ci nasconderemo (perché saremo di
nuovi perseguitati e torturati), ci troveranno e ci grideranno: “Nutriteci,
perché quelli che ci avevano promesso il fuoco del cielo non ce l’han dato”. E
allora saremo noi a ultimare la loro torre, giacché la ultimerà chi li sfamerà
e noi soli li sfameremo, in nome Tuo, facendo credere di farlo in nome Tuo. Oh,
mai, mai essi potrebbero sfamarsi senza di noi! Nessuna scienza darà loro il
pane, finché rimarranno liberi, ma essi finiranno per deporre la loro libertà
ai nostri piedi e per dirci: “Riduceteci piuttosto in schiavitú ma sfamateci!”.
Comprenderanno infine essi stessi che libertà e pane terreno a discrezione per
tutti sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo
fra loro! Si convinceranno pure che non potranno mai nemmeno esser liberi,
perché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli. Tu promettevi loro il pane
celeste, ma, lo ripeto ancora, può esso, agli occhi della debole razza umana,
eternamente viziosa ed eternamente abietta, paragonarsi a quello terreno? E se
migliaia e diecine di migliaia di esseri Ti seguiranno in nome del pane
celeste, che sarà dei milioni e dei miliardi di esseri che non avranno la forza
di posporre il pane terreno a quello celeste? O forse Ti sono care soltanto le
diecine di migliaia di uomini grandi e forti, mentre i restanti milioni,
numerosi come la sabbia del mare, di esseri deboli, che però Ti amano, non
devono servire che da materiale per i grandi e per i forti? No, a noi sono cari
anche i deboli. Essi sono viziosi e ribelli, ma finiranno per diventar docili.
Essi ci ammireranno e ci terranno in conto di dèi per avere acconsentito,
mettendoci alla loro testa, ad assumerci il carico di quella libertà che li
aveva sbigottiti e a dominare su loro, tanta paura avranno infine di esser
liberi! Ma noi diremo che obbediamo a Te e che dominiamo in nome Tuo. Li
inganneremo di nuovo, perché allora non Ti lasceremo piú avvicinare a noi. E in
quest’inganno starà la nostra sofferenza, poiché saremo costretti a mentire.
Ecco ciò che significa quella domanda che Ti fu fatta nel deserto, ed ecco ciò
che Tu ricusasti in nome della libertà, da Te collocata piú in alto di tutto.
In quella domanda tuttavia si racchiudeva un grande segreto di questo mondo.
Acconsentendo al miracolo dei pani, Tu avresti dato una risposta all’universale
ed eterna ansia umana, dell’uomo singolo come dell’intera umanità: “Davanti a
chi inchinarsi?”. Non c’è per l’uomo rimasto libero piú assidua e piú
tormentosa cura di quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi. Ma
l’uomo cerca di inchinarsi a ciò che già è incontestabile, tanto
incontestabile, che tutti gli uomini ad un tempo siano disposti a venerarlo
universalmente. Perché la preoccupazione di queste misere creature non è
soltanto di trovare un essere a cui questo o quell’uomo si inchini, ma di
trovarne uno tale che tutti credano in lui e lo adorino, e precisamente tutti
insieme. E questo bisogno di comunione nell’adorazione è anche il
piú grande tormento di ogni singolo, come dell’intera umanità, fin dal
principio dei secoli. È per ottenere quest’adorazione universale che si sono
con la spada sterminati a vicenda. Essi hanno creato degli dèi e si sono
sfidati l’un l’altro: “Abbandonate i vostri dèi e venite ad adorare i nostri,
se no guai a voi e ai vostri dèi!”. E cosí sarà fino alla fine del mondo, anche
quando gli dèi saranno scomparsi dalla terra: non importa, cadrànno allora in
ginocchio davanti agli idoli. Tu conoscevi, Tu non potevi non conoscere questo
fondamentale segreto della natura umana, ma Tu rifiutasti l’unica irrefragabile
bandiera che Ti si offrisse per indurre tutti a inchinarsi senza discussione
dinanzi a Te; la bandiera del pane terreno, e la rifiutasti in nome della
libertà e del pane celeste. Guarda poi quel che hai fatto in seguito. E sempre
in nome della libertà! Io Ti dico che non c’è per l’uomo pensiero piú
angoscioso che quello di trovare al piú presto a chi rimettere il dono della
libertà con cui nasce questa infelice creatura. Ma dispone della libertà degli
uomini solo chi ne acqueta la coscienza. Col pane Ti si dava una bandiera
indiscutibile: l’uomo si inchina a chi gli dà il pane, giacché nulla è piú
indiscutibile del pane; ma, se qualcun altro accanto a Te si impadronirà nello
stesso tempo della sua coscienza, oh, allora egli butterà via anche il Tuo pane
e seguirà colui che avrà lusingato la sua coscienza. In questo Tu avevi
ragione. Il segreto dell’esistenza umana infatti non sta soltanto nel vivere,
ma in ciò per cui si vive. Senza un concetto sicuro del fine per cui deve
vivere, l’uomo non acconsentirà a vivere e si sopprimerà piuttosto che restare
sulla terra, anche se intorno a lui non ci fossero che pani. Questo è giusto,
ma che cosa è avvenuto? Invece di impadronirti della libertà degli uomini. Tu
l’hai ancora accresciuta! Avevi forse dimenticato che la tranquillità e perfino
la morte è all’uomo piú cara della libera scelta fra il bene ed il male? Nulla
è per l’uomo piú seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è
piú tormentoso. Ed ecco che, in luogo di saldi principi, per acquetare la
coscienza umana una volta per sempre, Tu hai scelto tutto quello che c’è di piú
inconsueto, enigmatico e impreciso, hai scelto tutto quello che superava le
forze degli uomini, e hai perciò agito come se Tu non li amassi per nulla, e
chi mai ha fatto questo? Colui che era venuto a dare per essi la Sua vita!
Invece d’impadronirti della libertà umana, Tu l’hai moltiplicata e hai per
sempre gravato col peso dei suoi tormenti la vita morale dell’uomo. Tu volesti
il libero amore dell’uomo, perché Ti seguisse liberamente, attratto e
conquistato da Te. In luogo di seguire la salda legge antica, l’uomo doveva per
l’avvenire decidere da sé liberamente, che cosa fosse bene che cosa fosse male,
avendo dinanzi come guida la sola Tua immagine; ma non avevi Tu pensato che, se
lo si fosse oppresso con un cosí terribile fardello come la libertà di scelta,
egli avrebbe finito per respingere e contestare perfino la Tua immagine e la
Tua verità? Essi esclameranno, alla fine, che la verità non è in Te, perché era
impossibile abbandonarli fra ansie ed angosce maggiori di come Tu facesti,
lasciando loro tante inquietudini e tanti insolubili problemi. In tal modo
preparasti Tu stesso la rovina del Tuo regno, e non darne piú la colpa a
nessuno. Ma è questo intanto che Ti offriva? Ci sono sulla terra tre forze, tre
sole forze capaci di vincere e conquistare per sempre la coscienza di questi
deboli ribelli, per la felicità loro; queste forze sono: il miracolo, il
mistero e l’autorità. Tu respingesti la prima, la seconda e la terza e desti
cosí l’esempio. Lo spirito sapiente e terribile. Ti aveva posto sul culmine del
tempio e Ti aveva detto: “Se vuoi sapere se Tu sei Figlio di Dio, gettati in
basso, poiché di Lui è detto che gli angeli Lo sosterranno e Lo porteranno, ed
Egli non cadrà e non si farà alcun male, e saprai allora se Tu sei il Figlio di
Dio e proverai allora quale sia la Tua fede nel Padre Tuo”; ma Tu, udito ciò,
respingesti l’offerta, non Ti lasciasti convincere e non Ti gettasti giú. Oh,
certo, Tu agisti allora con una magnifica fierezza, come Iddio, ma gli uomini,
questa debole razza di ribelli, sono essi forse dèi? Oh, Tu comprendesti allora
che, facendo un solo passo, un solo movimento per gettarti giú, avresti
senz’altro tentato il Signore e perduto ogni fede in Lui, e Ti saresti
sfracellato sulla terra che eri venuto a salvare, e si sarebbe rallegrato lo
spirito sagace che Ti aveva tentato. Ma, ripeto, ce ne sono forse molti come
Te? E in verità potevi Tu ammettere, non fosse che per un momento, che anche
gli uomini avessero la forza di resistere a una simile tentazione? È forse
fatta la natura umana per respingere il miracolo e, in cosí terribili momenti
della vita, di fronte ai piú terribili, fondamentali e angosciosi problemi
dell’anima, rimettersi unicamente alla libera decisione del cuore? Oh, Tu
sapevi che la Tua azione si sarebbe tramandata nei libri, avrebbe raggiunto la
profondità dei tempi e gli ultimi confini della terra, e sperasti che, seguendo
Te, anche l’uomo si sarebbe accontentato di Dio, senza bisogno di miracoli. Ma
Tu non sapevi che, non appena l’uomo avesse ripudiato il miracolo, avrebbe subito
ripudiato anche Dio, perché l’uomo cerca non tanto Dio quanto i miracoli. E
siccome l’uomo non ha la forza di rinunziare al miracolo, cosí si creerà dei
nuovi miracoli, suoi propri, e si inchinerà al prodigio di un mago, ai
sortilegi di una fattucchiera, foss’egli anche cento volte ribelle, eretico ed
ateo. Tu non scendesti dalla croce quando Ti si gridava, deridendoti e
schernendoti: “Discendi dalla croce e crederemo che sei Tu”. Tu non scendesti,
perché una volta di piú non volesti asservire l’uomo col miracolo, e avevi sete
di fede libera, non fondata sul prodigio. Avevi sete di un amore libero, e non
dei servili entusiasmi dello schiavo davanti alla potenza che l’ha per sempre
riempito di terrore. Ma anche qui Tu giudicavi troppo altamente degli uomini,
giacché, per quanto creati ribelli, essi sono certo degli schiavi. Vedi e
giudica, son passati quindici secoli, guardali: chi hai Tu innalzato fino a Te?
Ti giuro, l’uomo è stato creato piú debole e piú vile che Tu non credessi! Può
egli forse compiere quel che puoi compiere Tu? Stimandolo tanto, Tu agisti come
se avessi cessato di averne pietà, perché troppo pretendesti da lui, e chi ha
fatto questo? Colui che lo amava piú di se stesso! Stimandolo meno, avresti
anche meno preteso da lui, e questo sarebbe stato piú vicino all’amore, perché
piú leggera sarebbe stata la sua soma. Egli è debole e vile. Che importa che
egli adesso si sollevi dappertutto contro la nostra autorità e si inorgoglisca
della sua rivolta? È l’orgoglio del bambino e dello scolaretto. Sono i piccoli
bimbi che si sono ribellati in classe e hanno cacciato il maestro. Ma anche
l’esaltazione dei ragazzetti avrà fine e costerà loro cara. Essi abbatteranno i
templi e inonderanno di sangue la terra. Ma si avvedranno infine, gli sciocchi
fanciulli, di essere bensí dei ribelli, ma dei ribelli deboli e incapaci di
sopportare la propria rivolta. Versando le loro stupide lacrime, riconosceranno
infine che chi li creò ribelli se ne voleva senza dubbio burlare. Essi lo
diranno nella disperazione, e le loro parole saranno una bestemmia che li
renderà anche piú infelici, perché la natura umana non sopporta la bestemmia e
alla fin fine se ne vendica sempre da sé. Inquietudine dunque, tumulto e
infelicità: ecco l’odierna sorte degli uomini, dopo che Tu tanto patisti per la
loro libertà! Il Tuo grande profeta dice nella sua visione e nella sua parabola
di aver visto tutti i partecipi della prima resurrezione e che ce n’erano
dodicimila per ciascuna tribú. Ma se erano tanti, vuol dire che quelli erano
piú dèi che uomini. Essi sopportarono la Tua croce, essi sopportarono diecine
d’anni di vita famelica nel nudo deserto, cibandosi di cavallette e di radici;
e certo Tu puoi appellarti con orgoglio a questi eroi della libertà, dell’amore
libero, del libero e magnifico sacrificio da essi compiuto in nome Tuo. Ma
ricordati che erano in tutto appena alcune migliaia, ed erano per giunta degli
dèi, ma i rimanenti? E che colpa hanno gli altri, gli uomini deboli, di non
aver potuto sopportare ciò che i forti poterono? Che colpa ha l’anima debole,
se non ha la forza di accogliere cosí terribili doni? Possibile che Tu sia
venuto davvero solo agli eletti e per gli eletti? Ma se è cosí, c’è qui un
mistero e noi non possiamo comprenderlo. E se c’è un mistero, anche noi avevamo
il diritto di predicarlo e di insegnare agli uomini che non è la libera
decisione dei loro cuori quello che importa, né l’amore, ma un mistero, a cui
essi debbono ciecamente inchinarsi, anche contro la loro coscienza. E cosí
abbiamo fatto. Abbiamo corretto l’opera Tua e l’abbiamo fondata sul miracolo,
sul mistero e sull’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di
essere nuovamente condotti come un gregge e di vedersi infine tolto dal cuore
un dono cosí terribile, che aveva loro procurato tanti tormenti. Avevamo noi
ragione d’insegnare e di agire cosí? Parla! Forse che non amavamo l’umanità,
riconoscendone cosí umilmente l’impotenza, alleggerendo con amore il suo
fardello e concedendo alla sua debole natura magari anche di peccare, ma però
col nostro consenso? Perché mi guardi in silenzio coi tuoi miti occhi
penetranti? Va’ in collera, io non voglio il Tuo amore, perché io stesso non Ti
amo. E che cosa dovrei nasconderti? Non so forse con chi parlo? Tutto ciò che
ho da dirti, già Ti è noto, lo leggo nei Tuoi occhi. E dovrei io nasconderti il
nostro segreto? Forse Tu vuoi proprio udirlo dalle mie labbra, ascolta dunque:
noi non siamo con Te, ma con lui, ecco il nostro segreto! Da lungo tempo
non siamo piú con Te, ma con lui, sono ormai otto secoli. Sono esattamente
otto secoli che accettammo da lui ciò che Tu avevi rifiutato con sdegno,
quell’ultimo dono ch’egli Ti offriva, mostrandoti tutti i regni della terra:
noi accettammo da lui Roma e la spada di Cesare e ci proclamammo re della
terra, gli unici re, sebbene non abbiamo ancora avuto il tempo di compiere
interamente l’opera nostra. Ma di chi la colpa? Oh, quest’opera è finora
soltanto agli inizi, ma è cominciata! Ancora a lungo si dovrà attenderne il
compimento e molto ancora soffrirà la terra, ma noi raggiungeremo la mèta,
saremo Cesari, e allora penseremo all’universale felicità degli uomini. Tu però
già allora avresti potuto accettare la spada di Cesare. Perché ricusasti
quest’ultimo dono? Accogliendo questo terzo consiglio dello spirito possente,
Tu avresti compiuto tutto ciò che l’uomo cerca sulla terra, e cioè: a chi
inchinarsi, a chi affidare la propria coscienza e in qual modo, infine, unirsi
tutti in un formicaio indiscutibilmente comune e concorde, giacché il bisogno
di unione universale è il terzo e l’ultimo tormento degli uomini. Sempre
l’umanità mirò nel suo insieme ad organizzarsi universalmente. Molti furono i
grandi popoli con una grande storia, ma quanto piú elevati erano quei popoli,
tanto piú erano infelici, perché piú fortemente degli altri sentivano il
bisogno dell’unione universale degli uomini. I grandi conquistatori, i Timùr e
i Gengis-Chan, passarono come un turbine sulla terra, cercando di conquistare
l’universo, ma anche essi, per quanto inconsapevolmente, espressero quello
stesso potente bisogno umano di unione mondiale ed universale. Accettando il
mondo e la porpora di Cesare, Tu avresti fondato il regno universale e dato la
pace universale. Chi mai infatti deve dominare gli uomini, se non quelli che
dominano la loro coscienza e nelle cui mani è il loro pane? E noi abbiamo preso
la spada di Cesare, ma naturalmente, prendendola, ripudiammo Te e andammo
dietro a lui. Oh, passeranno ancora secoli di orgia del libero pensiero,
di umana scienza e di antropofagia, perché, avendo cominciato a costruire la
loro torre di Babele senza di noi, è con l’antropofagia che termineranno. Ma
proprio allora la bestia striscerà verso di noi e leccherà i nostri piedi e li
spruzzerà con le lacrime di sangue dei suoi occhi. E noi ci assideremo sulla
bestia e leveremo in alto una coppa su cui sarà scritto “Mistero!”. Ma allora
soltanto, e allora spunterà per gli uomini il regno della pace e della
felicità. Tu sei fiero dei Tuoi eletti, ma Tu non hai che eletti, mentre noi
daremo la pace a tutti. D’altra parte, c’è anche questo: quanti di quegli
eletti, e di quei forti che avrebbero potuto diventarlo, si sono infine
stancati di attenderli, e hanno portato e ancora porteranno su altri campi le
forze del loro spirito e la fiamma del loro cuore, e finiranno anche per
sollevare contro di te la loro libera bandiera! Ma questa bandiera
l’innalzasti Tu stesso. Con noi invece tutti saranno felici e piú non si
rivolteranno, né si stermineranno fra loro, come facevano dappertutto nella Tua
libertà. Oh, noi li persuaderemo che allora soltanto essi saranno liberi,
quando rinunzieranno alla libertà loro in favore nostro e si sottometteranno a
noi. Ebbene, avremo ragione, perché ricorderanno a quali orrori di servitú e di
turbolenza li conducesse la Tua libertà. La libertà, il libero pensiero e la
scienza li condurranno in tali labirinti e li porranno davanti a tali portenti
e misteri insolubili, che di essi gli uni, ribelli e furiosi, si distruggeranno
da sé, gli altri, ribelli ma deboli si distruggeranno fra loro, mentre i rimanenti,
imbelli e infelici, si trascineranno ai nostri piedi e ci grideranno: “Sí, voi
avevate ragione, voi soli possedevate il Suo segreto e noi torniamo a voi,
salvateci da noi medesimi”. Ricevendo i pani da noi, certo vedranno chiaramente
che prendiamo i loro stessi pani, guadagnati dalle loro stesse braccia, per
distribuirli fra essi, senza miracolo alcuno, vedranno che noi non abbiamo
mutato in pani le pietre, ma in verità, piú che del pane stesso, saranno lieti
di riceverlo dalle nostre mani! Giacché troppo bene ricorderanno che prima,
senza di noi, gli stessi pani da essi guadagnati si mutavano nelle loro mani in
pietre, mentre, dopo il ritorno a noi, le pietre medesime si sono mutate nelle
mani loro in pani. Troppo, troppo apprezzeranno quel che significa
sottomettersi una volta per sempre! E finché gli uomini non capiranno questo,
saranno infelici. Ma chi piú di tutti, dimmi, ha favorito questa
incomprensione? Chi ha diviso il gregge e l’ha disperso per vie sconosciute? Ma
il gregge tornerà a raccogliersi, tornerà a sottomettersi, e questa volta per
sempre. Allora noi daremo loro la tranquilla, umile felicità degli esseri
deboli, quali essi furono creati. Oh, noi li persuaderemo infine a non
inorgoglirsi, ché Tu li innalzasti e in tal modo insegnasti loro a
inorgoglirsi: proveremo loro che sono deboli, che sono soltanto dei poveri
bimbi, ma che la felicità infantile è la piú dolce di tutte. Essi diverranno
mansueti, guarderanno a noi e a noi si stringeranno, nella paura, come i
pulcini alla chioccia. Ci ammireranno e avranno paura di noi, e saranno fieri
che noi siamo cosí potenti e cosí intelligenti da aver potuto pacificare un
cosí tumultuoso e innumere gregge. Temeranno la nostra collera, i loro spiriti
si faranno timidi, i loro occhi lacrimosi, come quelli dei bambini e delle
donne, ma altrettanto facilmente passeranno, a un nostro cenno, all’allegrezza,
ed al riso, alla gioia luminosa ed alle felici canzoni infantili. Certo li
obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro organizzeremo la loro
vita come un giuoco infantile con canti e cori e danze innocenti. Oh, noi
consentiremo loro anche il peccato, perché sono deboli e inetti, ed essi ci
ameranno come bambini, perché permetteremo loro di peccare. Diremo che ogni
peccato, se commesso col nostro consenso, sarà riscattato, che permettiamo loro
di peccare perché li amiamo e che, in quanto al castigo per tali peccati, lo
prenderemo su di noi. Cosí faremo, ed essi ci adoreranno come benefattori che
si saranno gravati coi loro peccati dinanzi a Dio. E per noi non avranno
segreti. Permetteremo o vieteremo loro di vivere con le proprie mogli ed
amanti, di avere o di non avere figli, – sempre giudicando in base alla loro
ubbidienza, – ed essi s’inchineranno con allegrezza e con gioia. Tutti, tutti i
piú tormentosi segreti della loro coscienza, li porteranno a noi, e noi
risolveremo ogni caso, ed essi avranno nella nostra decisione una fede gioiosa,
perché li libererà dal grave fastidio e dal terribile tormento odierno di
dovere personalmente e liberamente decidere. E tutti saranno felici, milioni di
esseri, salvo un centinaio di migliaia di condottieri. Giacché noi soli, noi
che custodiremo il segreto, noi soli saremo infelici. Ci saranno miliardi di
pargoli felici e centomila martiri che avranno preso su di sé la maledizione di
discernere il bene dal male. Essi morranno in pace, in pace si spegneranno nel
nome Tuo e oltre la tomba non troveranno che la morte. Ma noi conserveremo il
segreto e li lusingheremo, per la loro felicità, con una ricompensa celeste ed
eterna. Infatti, quand’anche in quell’altro mondo ci fosse qualcosa, non
sarebbe certo per esseri simili. Si dice e si profetizza che Tu verrai e
vincerai di nuovo, che verrai coi Tuoi eletti, superbi e possenti, ma noi
diremo che essi hanno salvato solamente se stessi, mentre noi abbiamo salvato
tutti. Si dice che la meretrice seduta sulla bestia, con la coppa del mistero
nelle mani, sarà svergognata, che i deboli torneranno a rivoltarsi,
strapperanno la sua porpora e denuderanno il suo corpo “impuro”. Ma io allora
mi alzerò e Ti additerò i mille milioni di bimbi felici, che non conobbero il
peccato. E noi, che ci siamo caricati dei loro peccati, per la felicità loro,
noi sorgeremo dinanzi a Te e diremo: “Giudicaci, se puoi e se osi”. Sappi che
io non Ti temo. Sappi che anch’io fui nel deserto, che anch’io mi nutrivo di
cavallette e di radici, che anch’io benedicevo la libertà di cui Tu letificasti
gli uomini, che anch’io mi ero preparato ad entrare nel numero dei Tuoi eletti,
nel numero dei potenti e dei forti, con la brama di “completare il numero”. Ma
mi ricredetti e non volli servire la causa della follia. Tornai indietro e mi
unii alla schiera di quelli che hanno corretto l’opera Tua. Lasciai gli
orgogliosi e tornai agli umili per la felicità di questi umili. Ciò che Ti dico
si compirà e sorgerà il regno nostro. Ti ripeto che domani stesso Tu vedrai
questo docile gregge gettarsi al primo mio cenno ad attizzare i carboni ardenti
del rogo sul quale Ti brucerò per essere venuto a disturbarci. Perché se
qualcuno piú di tutti ha meritato il nostro rogo, sei Tu. Domani Ti arderò. Dixi”.
Ivàn, si
fermò. Egli si era accalorato e aveva parlato con fervore; quando poi ebbe
finito, fece improvvisamente un sorriso.
Aljòsa, che
l’aveva sempre ascoltato in silenzio e verso la fine, in preda a straordinaria
agitazione, molte volte aveva voluto interrompere il discorso del fratello, ma
si era visibilmente trattenuto, si mise d’un tratto a parlare, come scattando:
– Ma... è un
assurdo! – esclamò, arrossendo. – Il tuo poema è l’elogio di Gesú e non la
condanna... come tu volevi. E chi ti crederà là dove parli della libertà? È
cosí, è forse cosí che va intesa? È quello il concetto che ne ha
l’ortodossia?... Quella è Roma, e neppure tutta Roma, sbaglio, sono i peggiori fra
i cattolici, sono gli inquisitori, i gesuiti!... E un personaggio fantastico
come il tuo inquisitore non può esistere affatto. Che cosa sono quei peccati
degli uomini che egli ha presi su di sé? Chi sono quei detentori del mistero,
che si sono addossata non so quale maledizione per la felicità degli uomini?
Quando mai si son visti? Noi conosciamo i gesuiti, se ne parla male, ma sono
forse come i tuoi? Non sono affatto cosí, sono tutt’altra cosa... Sono
semplicemente l’armata romana per il futuro regno universale terreno, con
l’imperatore, il pontefice romano, alla testa... ecco il loro ideale, ma senza
nessun mistero e nessuna sublime tristezza... La piú semplice brama di potere,
di sordidi beni terreni, di asservimento... una specie di futura servitú della
gleba, nella quale essi sarebbero i proprietari fondiari... ecco tutto quello
che essi vogliono. Forse non credono nemmeno in Dio. Il tuo inquisitore con le
sue sofferenze non è che una fantasia...
– Fermati,
fermati! – rise Ivàn, – come ti sei scaldato! Fantasia, tu dici, sia pure!
Fantasia, certo. Permetti però: credi tu davvero che tutto questo movimento
cattolico degli ultimi secoli non sia in realtà che una brama di potere in
vista soltanto di beni volgari? È forse padre Paisio che t’insegna cosí?
– No, no, al
contrario, padre Paisio diceva una volta perfino qualcosa del tuo genere... ma
era una cosa diversa, certo, tutta diversa, – si riprese Aljòsa.
–
Informazione preziosa, però, nonostante il tuo “tutta diversa”. Io ti domando:
perché i tuoi gesuiti e inquisitori si sarebbero collegati solo in vista di
beni materiali e volgari? Perché non può incontrarsi fra di loro neanche un
solo martire, tormentato da una nobile sofferenza e amante dell’umanità? Vedi:
supponi che fra tutti questi uomini non desiderosi che di sordidi beni
materiali se ne sia trovato anche uno solo come il mio vecchio inquisitore, che
abbia mangiato anche lui radici nel deserto e si sia accanito a domare la
propria carne per rendersi libero e perfetto, ma che però abbia in tutta la sua
vita amato l’umanità: a un tratto ha aperto gli occhi e ha veduto che non è una
gran felicità morale raggiungere la perfezione del volere, per doversi in pari
tempo convincere che milioni di altre creature di Dio sono rimaste imperfette,
che esse non saranno mai in grado di servirsi della loro libertà, che dai
miseri ribelli non usciranno mai dei giganti per condurre a compimento la
torre, che non per simili paperotti il grande idealista ha sognato la sua
armonia... Dopo aver compreso tutto ciò, egli è tornato indietro e si è
unito... alle persone intelligenti. Non poteva questo accadere?
– A chi si è
unito, a quali persone intelligenti? – esclamò Aljòsa quasi adirato. – Essi non
hanno né tanta intelligenza, né misteri o segreti di sorta... Forse soltanto
l’ateismo, ecco tutto il loro segreto. Il tuo inquisitore non crede in Dio,
ecco tutto il suo segreto!
– E anche se
fosse cosí? Infine tu hai indovinato. È proprio cosí, è ben qui soltanto che
sta tutto il segreto, ma non è forse una sofferenza, almeno per un uomo come
lui, che ha sacrificato tutta la sua vita nel deserto per una grande impresa e
non ha perduto l’amore per l’umanità? Al tramonto dei suoi giorni egli acquista
la chiara convinzione che unicamente i consigli del grande e terribile spirito potrebbero
instaurare un qualche ordine fra i deboli ribelli, “esseri imperfetti e
incompiuti, creati per derisione”. Ed ecco che, di ciò convinto, vede come
occorra seguire le indicazioni dello spirito intelligente, del terribile
spirito della morte e della distruzione, e, all’uopo, accettare la menzogna e
l’inganno, guidare ormai consapevolmente gli uomini alla morte e alla
distruzione, e intanto ingannarli per tutto il cammino, affinché non possano
vedere dove sono condotti affinché questi miseri ciechi almeno lungo il cammino
si stimino felici. E nota: l’inganno è compiuto in nome di Quello nel cui
ideale il vecchio ha per tutta la sua vita cosí appassionatamente creduto! Non
è questa un’infelicità? E anche se un solo uomo simile si fosse trovato alla testa
di tutta quell’armata “avida di potere in vista di soli beni volgari”, non
sarebbe sufficiente quest’unico perché si avesse la tragedia? Piú ancora:
basterebbe che ci fosse alla testa un solo uomo cosí perché si scoprisse,
finalmente, la vera idea direttiva di tutta l’opera di Roma, con tutte le sue
armate e i suoi gesuiti, l’idea suprema dell’opera stessa. Te lo dico schietto,
io credo fermamente che quest’unico non sia mai mancato fra quelli che erano
alla testa del movimento. Chissà, ce ne sono stati anche fra i pontefici
romani! Chissà, questo vecchio maledetto, che cosí ostinatamente e cosí a modo
suo ama l’umanità, esiste forse anche oggidí sotto l’aspetto di tutta una
schiera di vecchi consimili, e non già casualmente, ma perché esiste come un accordo,
come una segreta alleanza, già da gran tempo stabilita per custodire il
mistero, per salvaguardarlo dagli uomini sventurati ed imbelli, allo scopo di
rendere costoro felici. Cosí è senza dubbio, e cosí dev’essere. Io immagino che
perfino i massoni abbiano, fra i loro principi, qualcosa di analogo a questo
mistero e che i cattolici odino tanto i massoni perché vedono in essi dei
concorrenti, che spezzano l’unità dell’idea, mentre unico deve essere il gregge
e unico il pastore... Del resto, difendendo il mio pensiero, io ho l’aria di un
autore che non sopporta la tua critica. Ma basta di ciò!
– Sei forse
massone anche tu! – sfuggí ad Aljòsa. – Tu non credi in Dio, – soggiunse, ma
ormai con profonda amarezza. Gli parve inoltre che il fratello lo guardasse con
fare canzonatorio. – E come termina il tuo poema? – domandò a un tratto, con lo
sguardo a terra, – o è già terminato?
– Io volevo
finirlo cosí: l’inquisitore, dopo aver taciuto, aspetta per qualche tempo che
il suo Prigioniero gli risponda. Il Suo silenzio gli pesa. Ha visto che il
Prigioniero l’ha sempre ascoltato, fissandolo negli occhi col suo sguardo calmo
e penetrante e non volendo evidentemente obiettar nulla. Il vecchio vorrebbe
che dicesse qualcosa, sia pure di amaro, di terribile. Ma Egli tutt’a un tratto
si avvicina al vecchio in silenzio e lo bacia piano sulle esangui labbra
novantenni. Ed ecco tutta la Sua risposta. Il vecchio sussulta. Gli angoli
delle labbra hanno avuto un fremito; egli va verso la porta, la spalanca e Gli
dice: “Vattene e non venir piú... non venire mai piú... mai piú!”. E Lo lascia
andare per “le vie oscure della città”. Il Prigioniero si allontana.
– E il
vecchio?
– Il bacio
gli arde nel cuore, ma il vecchio persiste nella sua idea.
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