VIGANÒ, BARROS, E LO STILE DI GOVERNO DEL PONTEFICE REGNANTE. L’ÉGLISE, C’EST MOI…

Marco Tosatti
Lo scandalo Viganò è sotto certi aspetti peggio del caso Barros, il vescovo cileno promosso alla diocesi di Osorno dal Pontefice regnante contro venti, maree e l’opposizione di molti nella disastrata Chiesa cilena. Ed è esemplare di uno stile di governo obliquo da parte del successore di Pietro.
Come alcuni hanno fatto notare, nelle due lettere, entrambe molto singolari e interessanti, quella di dimissioni (?) di Viganò e del Pontefice
Rileggetele, per favore.
Padre Santo,
Città del Vaticano, 19 marzo 2018
in questi ultimi giorni si sono sollevate molte polemiche circa il mio operato che, al di là delle intenzioni, destabilizza il complesso e grande lavoro di riforma che Lei mi ha affidato nel giugno del 2015 e che vede ora, grazie al contributo di moltissime persone a partire dal personale, compiere il tratto finale.
La ringrazio per l’accompagnamento paterno e saldo che mi ha offerto con generosità in questo tempo e per la rinnovata stima che ha voluto manifestarmi anche nel nostro ultimo incontro.
Nel rispetto delle persone che con me hanno lavorato in questi anni e per evitare che la mia persona possa in qualche modo ritardare, danneggiare o addirittura bloccare quanto già stabilito del Motu Proprio L’attuale contesto comunicativo del 27 giugno 20L5, e soprattutto, per l’amore alla Chiesa e a Lei Santo Padre, Le chiedo di accogliere il mio desiderio di farmi in disparte rendendomi, se Lei lo desidera, disponibile a collaborare in altre modalità).
ln occasione degli auguri di Natale alla Curia nel 2016, Lei ricordava come “la riforma sarà efficace solo e unicamente se si attua con uomini “rinnovati” e non semplicemente con “nuovi” uomini. Non basta accontentarsi di cambiare il personale, ma occorre portare i membri della Curia a rinnovarsi spiritualmente, umanamente e professionalmente. La riforma della Curia non si attua in nessun modo con il cambiamento delle persone – che senz’altro avviene e avverrà- ma con la conversione nelle persone”.
Credo che il “farmi in disparte” sia per me occasione feconda di rinnovamento o, ricordando l’incontro di Gesù) con Nicodemo (Gv 31,L), il tempo nel quale imparare a “rinascere dall’alto”. Del resto non d la Chiesa dei ruoli che Lei ci ha insegnato ad amare e a vivere, ma quella del servizio, stile che da sempre ho cercato di vivere.
Padre Santo, La ringrazio se vorrà accogliere questo mio “farmi in disparte” perch6 la Chiesa e il suo cammino possa riprendere con decisione guidata allo Spirito di Dio.
Nel chiederle la sua benedizione, Le assicuro una preghiera per il suo ministero e per il cammino di riforma intrapreso.

Reverendissimo Monsignore
A seguito dei nostri ultimi incontri e dopo aver a lungo riflettuto e attentamente ponderate le motivazioni della sua richiesta a compiere “un passo indietro” nella responsabilità diretta del Dicastero per le comunicazioni, rispetto la. sua decisione e accolgo, non senza qualche fatica, le dimissioni da Prefetto.
Le chiedo di proseguire restando presso il Dicastero, nominandola come Assessore per il Dicastero della comunicazione per poter dare il suo contributo umano e professionale al nuovo Prefetto al progetto di riforma voluto dal Consiglio dei Cardinali, da me approvato e regolarmente condiviso. Riforma ormai giunta al tratto conclusivo con l’imminente fusione dell’Osservatore Romano all’ interno dell’unico sistema comunicativo della Santa Sede e l’accorpamento della Tipografia Vaticana.
Il grande impegno profuso in questi anni nel nuovo Dicastero con Io stile di disponibile confronto e docilità che ha saputo mostrare tra i collaboratori e con gli organismi della Curia romana ha reso evidente come la riforma della Chiesa non sia anzitutto un problema di organigrammi quanto piuttosto l’acquisizione di uno spirito di servizio.
Mentre La ringrazio per l’umiltà e il profondo sensus ecclesiae, volentieri la benedico e la affido a Maria.

In nessuna delle due lettere si fa accenno, neanche velato a errori di condotta. In nessuna delle due lettere si fa menzione della persona più colpita da tutta questa squallida vicenda, e cioè Benedetto XVI. Che, forse, almeno qualche scusa l’avrebbe meritata. Gli è stato chiesto un commento “denso e conciso” al lavoro di persone che lo hanno sempre osteggiato pubblicamente; una sua troppo cortese lettera di diniego è stata resa pubblica, anche se riservata personale; parti della sua lettera sono state usate per fargli dire quello che non ha detto; la fotografia della sua lettera è stata manipolata; il responsabile delle comunicazioni ha mentito dicendo di averla letta integralmente, mentre non l’ha fatto. Di questa sequenza di azioni non c’è traccia nelle due lettere. Il massimo dei ridicolo – permettete la digressione – è stato raggiunto da chi senza ridere sostiene che Viganò ha censurato la lettera per difendere Benedetto XVI. L’improntitudine non conosce frontiere.
C’è da pensare che il Pontefice fosse al corrente della trappolina che era stata stesa davanti ai piedi di Benedetto? La lettera di risposta a Viganò non dissipa questo sospetto, anzi, piena di elogi come è, lo rende plausibile.
C’è da pensare che la lettera di dimissioni di Viganò, con la sua singolare disponibilità (strana da parte di un dimissionario) a continuare a collaborare sia stata scritta d’accordo con il Pontefice? Le due lettere rendono plausibile questa ipotesi.
Ma se le cose stanno come è scritto nelle due lettere, perché Viganò si è dimesso? Per le polemiche? Ma le polemiche ci sono sempre state, e alle polemiche si risponde, se si è nel giusto e non si ha niente da rimproverarsi, con chiarimenti e spiegazioni.
Se invece si sono commessi errori, virilmente lo si ammette. E se ne tirano le conseguenze.
Come nel caso Barros, il Pontefice è restio ad ammettere errori, suoi o dei suoi fidi. Il che non è un bel segno. Non denota quell’ampiezza d’animo che tutti vorremmo vedere in un successore di Pietro. Fa sospettare fragilità caratteriali e psicologiche.
Invece le fake dimissioni dopo la fake lettera testimoniano un tratto di governo poco simpatico. E qui veniamo allo stile obliquo di gestione del Pontefice. Abbiamo visto che quando un’istituzione aveva un capo che non gli piaceva o non era abbastanza ossequioso e ossequiente, il Pontefice lo aggirava, creando un N.2 che godeva del contatto diretto con lui. È un modello usato nella CEI quando c’era Bagnasco, alle Congregazione per la Fede quando c’era Müller, al Culto con Sarah; e sono solo tre esempi. La creazione di un ruolo da assessore per Viganò, analogo a quello creato dal nulla all’APSA per il vescovo argentino dalle strane dimissioni, mons. Zanchetta, fa pensare proprio a questo. Avete voluto che Viganò si dimettesse? Si è dimesso, ma io lo tengo lì lo stesso, e anzi – probabilmente – con più potere di prima; perché avrà il potere sostanziale del rapporto con il Pontefice, ma non la responsabilità formale, che talvolta rappresenta un limite. Come dire: vi ho fatti fessi.
La Chiesa non è una democrazia. Nella Chiesa il massimo di democrazia reale, come in tutti i regni, è dato dal rispetto dei ruoli. Ci sono leggi, ci sono istituzioni (le Congregazioni e gli altri uffici) che con il loro lavoro, regolato dalle leggi, garantiscono memoria e uniformità di governo nella Chiesa e per la Chiesa col passare del tempo e dei pontefici e difendono i diritti di tutti, e della Chiesa stessa. Nessun papa può dire: la Chiesa sono io. Uno stile personale e autocratico come quello dimostrato in questo e altri casi rende vacui i proclami di sinodalità ecc. ecc. strombazzati dai corifanti di Santa Marta.
Un’ultima osservazione: la lettera del Pontefice contiene una notizia: la “fusione” dell’Osservatore Romano. Che cosa significa? La fine della storica testata?

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