Robert Sarah e la forza del silenzio

Ampi stralci della riflessione del Cardinale Robert Sarah al termine della presentazione del suo libro ” La forza del silenzio” nella edizione tedesca della casa editrice FE- Medienverlag.
Era presente Mons. Gänswein, che ha detto: "Stamane ho ricevuto in Vaticano e ho dato il benvenuto al Presidente degli Stati Uniti d'America... E tuttavia per me un onore più grande leggervi ora la Prefazione nella quale il Papa emerito riesce nel paradosso di rompere il suo silenzio per lodare il rimanere in silenzio e quel silenzio che il cardinale Sarah nel suo libro tanto esalta".

Prima di tutto devo ringraziare. Ringrazio ciascuno di voi che siete qui: con la vostra presenza numerosa indicate che il silenzio non è un tema del passato, ma resta di importanza cruciale anche oggi; con la vostra presenza dite che il silenzio non riguarda solo la vita monacale, anzi anche noi abbiamo bisogno di silenzio.
Ringrazio il Pontificio Istituto di Santa Maria dell’Anima, e in particolare il suo Rettore, mons. Brandmayr, che ha offerto gli spazi per presentare al pubblico questo volume. Ringrazio infine l’editore, FE- Medienverlag e in specie, il signor Bernhard Müller, per avere voluto assumersi l’onere della pubblicazione del libro “La forza del silenzio”, che avete ora in mano.
L’edizione tedesca del mio primo libro Dieu ou rien ha avuto una bella accoglienza. Spero che anche in questo caso il pubblico apprezzi le riflessioni che offro, nella “Forza del silenzio”. Infatti, il silenzio è un tema universale e attraverso di esso ci si spalancano quegli orizzonti che ci permettono di entrare nella verità della nostra vita.
Questo libro infatti nasce dalla vita. Nasce dalla esperienza mia personale e di persone care che ho conosciuto e che, nel silenzio e proprio per il loro silenzio, hanno portato frutti immensi di santità e di carità. Penso in particolare a fratel Vincent-Marie de la Résurrection, un canonico dell’abbazia di Sainte Marie di Lagrasse che ho conosciuto nel 2014. Il fratello soffriva di una sclerosi multipla che lo ha condotto alla morte nel 2016, all’età di 37 anni. Fratel Vincent non poteva parlare: tra di noi è nata una bellissima relazione spirituale fatta non di parole, ma di sguardi, di silenzi, di preghiera cui fratel Vincent partecipava muovendo le labbra. Questa dimensione umana e mistica del silenzio di fratel Vincent mi ha segnato in maniera del tutto speciale. Posso dire che il libro che oggi presentiamo nasce nella camera di un malato, di un giovane religioso che attendeva il cielo con un corpo sempre più marcato dalla sofferenza, ma – vorrei dire – già trasceso perché inabitato dalla luce sopravveniente della resurrezione.
Per me, poi, il silenzio, fa parte di una esperienza personale che mi ha scavato nei primi anni del mio episcopato a Conakry, quando vivevo molto isolato e controllato per le note vicende politiche di cui ho trattato anche nel mio precedente volume. L’isolamento esterno ha dilatato in me – ed è stato un grande dono di Dio – quegli spazi interiori in cui Dio viene ad abitare, a parlare e a consolare.

Sono queste esperienze che aiutano anche ad avere un discernimento più profondo su quanto ci circonda oggi, in un ambiente culturale dove si evita sistematicamente di stare soli con se stessi per guardarsi dentro. Il frastuono, la chiacchiera e le tecnologie che li veicolano mascherano il vuoto di un uomo che non sa più per cosa vivere. Ma ancor più doloroso per me è constatare come questa superficialità, questa empietà ingiuriosa verso Dio e verso la persona umana sia entrata anche nella Chiesa. Non posso negare infatti che questo libro nasce anche dalla mia esperienza di prefetto della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti. Posso affermare che è la liturgia quella dimensione della vita della Chiesa che più soffre della riduzione secolaristica che avviene anche dentro la Chiesa. Cerco di spiegarmi.
Non è un mistero  – e lo dico con grande sofferenza – che il nostro mondo moderno viva di fatto un allontanamento pratico da Dio. Non dobbiamo pensare a questo solo in termini intellettuali, perché questo allontanamento è un vissuto. È la vita quotidiana di milioni di persone nella sua concretezza ad essere marcata dal  vuoto originato dall’assenza di Dio. Ma, se manca Dio, l’uomo deve disperatamente cercare qualcosa che gli faccia una promessa di assoluto, e deve purtroppo constatare nel contempo che niente di ciò che è semplicemente umano può riempire completamente il suo  cuore. Il problema è che ci ostiniamo a cercare esattamente in soluzioni puramente umane le risposte al nostro destino. Di fronte ai grandi innegabili problemi, invece che alzare il cuore e le mani a Dio, ci ostiniamo a cercare nei mezzi umani le nostre soluzioni.
A volte ho l’impressione che questa secolarizzazione sia entrata anche nella Chiesa e consiste esattamente nel ridurre la fede alla nostra misura umana. Invece che ad aprire l’uomo alla iniziativa di Dio, che è inaspettata, dirompente, liberante, si pensa che l’uomo di oggi possa credere meglio se gli proponiamo una fede che non si fonda tanto sulla rivelazione di Cristo e la tradizione della Chiesa, ma sulle esigenze dell’uomo moderno, sulle sue possibilità e sulla sua mentalità.
Questa secolarizzazione si manifesta anche nella liturgia. Il Concilio Vaticano II ha detto che la liturgia è fonte e culmine della vita cristiana. Direi ancora di più. La liturgia è un luogo sponsale, dove si consuma un atto di amore totale di Cristo verso la sua Chiesa e dove il cristiano può entrare in una comunione piena, anima e corpo, con il suo Signore. Proprio per questa centralità della liturgia, essendo il punto più sensibile della vita della Chiesa, la riduzione della fede a una misura puramente umana si fa particolarmente sentire in tutta la sua gravità, sia nelle parole che nei gesti. Come si rileva nel libro, sentiamo mai parlare di fede, di vita eterna, di comunione con la persona di Cristo, di peccato come rottura e ribellione contro Dio nelle nostre omelie? E non si tenta forse di cancellare tutti quei gesti che non sembrano “comprensibili” all’uomo di oggi sostituendoli con un fiume di parole che trasformano le nostre eucarestie più che in celebrazioni, in grandi happening, al cui centro c’è un uomo chiuso nei suoi problemi e nei suoi criteri di giudizio per risolverli? Una celebrazione dell’uomo piuttosto che una celebrazione di Dio e della Chiesa?

È da questa apparente assenza di Dio –  mi si passi il termine – nella liturgia, che nasce il mio libro sul silenzio, proprio per ridare a Dio il suo primato. Non ne va evidentemente di un silenzio fine a se stesso, ma di un silenzio in cui Dio possa parlare ed essere ascoltato. Il primato di Dio, la centralità di Dio, l’adorazione di Dio e la santificazione dell’uomo costituiscono il cuore e la sostanza della liturgia cristiana.
Il Concilio ci ha lasciato una grande eredità, proprio nel cuore della Costituzione sulla liturgia e del rinnovamento liturgico: la santificazione di ogni battezzato. Questo è un aspetto da riscoprire. La santificazione passa esattamente dall’incontro con Colui che nella liturgia invochiamo: Santo, Santo, Santo. Ma come possiamo incontrarlo se siamo pieni di noi stessi e in noi non c’è spazio per lui? Come poter lasciarci riempire della sua divina presenza, della sua parola di vita, del suo messaggio confortante di morte e resurrezione, se siamo pieni di parole e suoni e messaggi puramente umani? Questa considerazione vale per il singolo fedele, ma vale per tutta la comunità quando celebra: se al centro della celebrazione siamo noi stessi, come può una comunità sperimentare l’azione dello Spirito Santo che la vivifica?
La sfida del silenzio è una grande sfida perché ci porta al senso vero della esistenza umana: il rapporto dell’uomo con Dio, e forse meglio ancora: il rapporto di Dio con l’uomo.
Ritorno con la mente ad un versetto biblico che forse ci aiuta ad aprire gli occhi sulla prospettiva divina della fede. “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo rapido corso, la tua parola onnipotente, dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio portando, come spada affilata, il tuo decreto irrevocabile” (Sap 18, 14-15).
Quando la creazione sa mettersi in silenzio, Dio fa sentire la sua voce. Questa voce è la sua Parola incarnata, è Gesù Cristo, il Verbo, ed è proprio il mistero dell’incarnazione a fare luce sul rapporto divino-umano. Ed è in questa luce che si illumina anche il senso della liturgia. Essa è l’irruzione del divino nell’umano. Un fascio di luce che scende a noi e rischiara tutte le nostre tenebre.

Come dicevo, il silenzio non è fine a se stesso, ma è una condizione necessaria: il silenzio crea quel clima che rende possibile l’accoglienza della incarnazione. Ma direi ancora di più, come suggerisce Benedetto XVI nella sua introduzione, Gesù è silenzio e parola, e la Chiesa nelle sue espressioni è silenzio e parola che si fecondano reciprocamente. Così si evidenziano almeno due considerazioni che vorrei fare a proposito della liturgia, considerando la natura della incarnazione, cioè del fatto che, è Dio a farsi uomo, il divino ad assumere l’umano, l’eterno a farsi temporale, e non viceversa. Ribadisco questo non per disprezzare l’umano, non per sminuire la dignità dell’uomo, verso cui Dio invece si è chinato, ma perché dobbiamo avere uno sguardo lucido sul fatto che l’iniziativa primaria è di Dio, perché l’uomo da solo non può scalare il cielo. Questa logica incarnatoria vale assolutamente per la liturgia, che è opus divinum, pur manifestato in linguaggio umano. Due allora le considerazioni che vorrei svolgere e che potrete trovare, tra le altre, anche nel libro che oggi presentiamo.
La questione dell’inculturazione non è primariamente la questione di come possiamo rendere più africana o più asiatica o più aborigena la liturgia. Il divino irrompe nell’umano non per farsi incatenare dall’umano, ma per aprirlo, per purificarlo, per liberarlo, per trasformarlo, per divinizzarlo. Ho troppe volte l’impressione che ci occupiamo più di come rendere più “adatta” la liturgia che di come offrire tutta la sua ricchezza. E’ evidente che la liturgia deve rivolgersi alla persona concreta e deve trovare le forme per parlare alla persona concreta, così come Dio si è fatto uomo per parlare con noi, ma non per ridurre il divino a ciò che di esso si può “capire”, ma piuttosto per aprire l’umano all’irrompere della salvezza che Dio gli vuole offrire. Non possiamo imprigionare il divino nelle categorie umane. E’ significativo che nel suo incontro con la cultura pagana il cristianesimo antico prima che assumere forme sacrificali “pagane”, ha fatto passare la sua ricchezza, anche liturgica, ereditata in gran parte dalla rivelazione giudaica, ai pagani che si convertivano.
Una seconda considerazione riguarda il rispetto per Dio. La Sacra Scrittura è piena di riferimenti al “timore per Dio”: initium sapientiae timor Domini. E il timor di Dio è uno dei sette doni dello Spirito santo. Questo timore non è paura, perché, come dice san Giovanni, la carità scaccia la paura, ma è rispetto e venerazione filiale. Rispetto per le cose di Dio, che è molto più grande dell’uomo. Lui è Creatore, noi siamo creature. L’intimità con Dio non cancella il rispetto per Lui. La dignità nell’atteggiamento in liturgia, nella disposizione dell’arredamento liturgico, nel comportamento dentro il tempio di Dio sono l’espressione che Dio non è a nostra disposizione. La citazione del libro della Sapienza che prima riportavo indica che il decreto di Dio è come una spada affilata. Ed è la stessa immagine che la lettera agli Ebrei utilizza per definire la Parola, che, come spada affilata, penetra fino nel profondo di noi stessi (cfr. Ebr 4,12). Se non c’è rispetto per Dio, non possiamo neppure prendere sul serio la sua Parola salvifica, farci interrogare ed illuminare da essa.

Il silenzio è il clima interiore, l’atteggiamento interiore, la disponibilità interiore che consente tutto questo e rende feconda la parola della Chiesa. Ad una Chiesa che rischia di impoverirsi perché può chiudersi in metri di giudizio puramente umani, io mi permetto con grande umiltà di indicare la strada del silenzio perché ogni fedele, ma anche ogni comunità celebrante, si apra alla iniziativa di Dio e accolga tutta la grazia che viene da Lui. In conclusione, vorrei proporre alla vostra riflessione la stupenda affermazione di A. M. Triacca, nel suo libro “Spirito Santo e Liturgia”. “Il silenzio nella liturgia non è una cerimonia; è piuttosto una sospensione di ogni gesto, parola, rito. Non è una sosta dal celebrare, quanto invece un entrare nel cuore della celebrazione. Non è un punto morto perché è un momento culmine; sta ad indicare lo Spirito Santo: la sua presenza, la sua azione che porta alla contemplazione […]. Il silenzio liturgico è richiamo alla disponibilità dell’Azione dello Spirito. Egli parla nel silenzio: per sentirlo bisogna far silenzio”.
Vi ringrazio perché, ciascuno nel proprio ambito, può contribuire ad aprire questo spazio.

http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2017/05/robert-sarah-e-la-forza-del-silenzio.html

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